martedì 13 gennaio 2009

I segreti degli Alpini

Già le lisce pareti delle Tre Cime, riflettendo come specchi scarlatti i bagliori del sole pomeridiano, promettevano un tramonto di ineguagliabile splendore; i lontani Tauri a settentrione emergevano dalle spesse nubi scure che ricoprivano le profonde valli e si ergevano con pinnacoli d’un cupo verde azzurro verso il cielo terso; come tutto sembra pulito, da quelle elevate altitudini di pietra, sotto un mantello sereno decorato da profondi blu, tali da provocare sensazioni di intensa vertigine, volgendo lo sguardo verso la volta del cielo che non verso gli immani baratri di dolomia. Pilòn, che controllava i legacci di cuoio delle salmerie, si stagliava sullo sfondo celeste, come l’ombra di un invisibile attore contro un sipario terso: un cielo pulito, preavviso di una sera tranquilla e fresca di profumi montani, quasi un aroma di lenzuola stese sui prati ad asciugare, per rubare ai fiori e all’erba la sapida fragranza. I muli, impastoiati sul sentiero sassoso, rumoreggiavano con gli zoccoli, frantumando il fragile pietrisco da cui si spandeva tutto attorno l’odore acre della pietra focaia, misto a quello caldo e rassicurante del manto e del fiato degli animali. Pilòn accarezzò il pelo liscio e lucido del suo mulo, dopo averne spazzolato a lungo le crine, poi, tenendo una grande mano su quel muso gentile ed ostinato, con l’altra accostata all’orecchio peloso e fremente dell’animale sussurrò qualcosa: il mulo parve annuire e quasi a confermare, sbuffò dalle froge umide una nuvola di vapore che svanì nell’aria frizzante del pomeriggio. Un giovane alpino, vedendo quel colloquio strano, si rivolse stupito a un compagno anziano:

- Ma, gli asini capiscono?


- E’ un mulo, non un asino; certo che capiscono.


- Ma và!


- Certo che capiscono; prima che finisca la guerra vedrai che anche tu parlerai con i muli.


- Ma che cosa ha detto al mulo, tu lo sai?


- No, sono segreti, segreti degli alpini, nessuno li può sapere e adesso taci, matricola!


- Mah, di sicuro gli ha detto che finisce la guerra.


- Sì, forse; solo il mulo sa quando finirà.


Il sole scivolava lento dietro una croda, disegnando lame di luce rossastra nel cielo che andava incupendo; Pilòn tolse dal taschino l’orologio antico, la vecchia “cipolla” del nonno, al quale il nonno l’aveva donata. Uno sguardo all’ora, poi mosse a grandi passi rumorosi verso il sergente, sapendo che l’amico non gliela avrebbe negata, quella pazzia.


- Magiòr, ho da andàr, domani, prima che nassa el sole sarò qua; prima della sveja.


- Pilòn, mi so che son mat però so che ti si mat più de mi, ma torna in tempo. I austriachi là sot i xè in fermento, domani i se svejarà presto, anca le piere se svejarà, no farme far la guera a mi solo.


Così, mentre il sole già iniziava a giocare con le cime ad occidente, striando di raggi vermigli il mantello azzurro del cielo, Pilòn partì come uno stambecco franando lungo i ripidi ghiaioni, con le gambe lunghe che emergevano dall’ondata di pietrisco e riaffondavano; quelle braccia aperte per equilibrare la corsa pazza verso valle, sembravano le immense ali di un’aquila planante.


Gli alpini, dalla cengia, guardavano stupiti il compagno che scivolava sicuro tra le rocce, cavalcando un’onda di ghiaia, in una nuvola di pietrisco e polvere bianca, ed anche quando, ormai nascosto dai mughi bassi e resinosi, fu invisibile all’ombra della croda, si poteva udire il rumore della sua corsa, quasi un sordo franare di una valanga lontana.


- Dove valo, Pilòn, così de corsa?


- Tasi, matricola, l’è un segreto.


- Un segreto?


- Un segreto dei Alpini, dormi adess, che ‘l prossimo turno de guardia riva presto.


Pilòn scese veloce, mentre nella sera le ombre si allungavano; la luna piena iniziava a rischiarare le candide sassaie del Pelmo e dipingeva di azzurro i piastroni dell’Antelao. Corse fino alle scivolose erbe dei prati, senza fermarsi, giù, verso il Boite che scorreva, cantando con le sue acque color latte e menta, sotto le scure e severe chiome degli abeti neri. Ecco, era apparso il campanile di pietra del villaggio e i rintocchi del vespero, ripetuti dalle eco si spandevano nelle valli immerse in una quiete quasi incredula, come se la guerra delle vette là, lungo i boschi odorosi di muschio e funghi, fosse solo una fiaba d’altri tempi, d’altri luoghi.


Presso la minuscola pieve di pietra la giovane, chinata sulla vasca del fontanile, raccoglieva con le mani l’acqua limpida e la spandeva ora sui polsi, ora sulle braccia, per salire poi fino alle ascelle ed alle spalle, infine ai seni che turgidi rispondevano alla frizzante carezza. Pilòn fermò la sua corsa e rimase sul bordo del prato per riprendere fiato, in silenzio, e per ammirare la sua amata, in quella scena riservata e solitaria di struggente ed intima dolcezza. Lei indossava soltanto la gonna ed il grembiule, sciolto dalle spalline merlettate, vi ricadeva sulle volute ampie. I piedi scalzi e rosei sembravano ancor più minuti sull’erba ancor tiepida del prato. Le strie candide di sapone, l’antico sapone da biancheria dal generoso aroma di pulito, scivolavano, deterse dall’acqua fredda, portata sulla pelle dalle mani chiuse a coppa.


Sulle guance abbronzate ricadevano ciocche di capelli bagnati che il chiaro di luna ornava di riflessi bluastri: il cuore impazzì nel petto di Pilòn, colmo d’amore e di desiderio. Ignara d’essere ammirata dal suo compagno, lei continuò a detergere la stanchezza della giornata dal petto e dal collo, da cui l’acqua scivolava; leggermente china sul lavatoio mostrava il corpo giovane e perfetto, i lunghi capelli ornavano un viso dai tratti delicati, le guance arrossate dal sole e dalla reazione all’acqua gelida donavano alla donna pennellate di pulita fanciullezza. Pilòn le si avvicinò, cauto, alle spalle e mentre con le braccia alzate lei si sistemava i capelli, l’abbracciò forte, stringendola a sé e le grandi mani forti e al tempo delicate le imprigionarono i seni. Lei ebbe un sussulto, ma l’inconfondibile contatto delle mani conosciute la tranquillizzò e, ruotando lentamente, sulle punte dei piedi scalzi, come in un ballo di carillon, avvinta nelle braccia amate, volse il corpo e lo sguardo verso il suo compagno per offrirgli gli occhi immensi e neri, la bocca rossa, le labbra morbide, tutta sé stessa.


- Sei tornato, Pilòn? Non devi partire? Dov’è il Reparto?


- E’ un segreto, Piccolina, un segreto degli Alpini – rise lui – ma mi chiamerai ancora per cognome?


- Un segreto, Pilòn? – rise anche lei.


- No, per te nessun segreto. Solo per questa notte, Fiore. Gli austriaci saliranno da Carbonin, sarà domani, chissà


- Domani?


- Profumi di fiori, d’erba, di sapone – aggiunse piano Pilòn alla sua donna, per uscire da quel discorso, da quella sensazione opprimente che gli serrava il cuore.


- Tu sai di mulo e di sudore, Pilòn! – scherzò lei, ridendo.


Così iniziò a spogliarlo, baciandoli il petto, affondando il viso sulla sua pelle, perché non voleva lui capisse che piangeva. La passione cancellò le paure, la guerra, l’universo attorno e finirono, nudi, nella gelida acqua del lavatoio, per lavarsi e accarezzarsi e baciarsi e scambiarsi la pelle, l’anima, il cuore. Lei uscì dalla vasca gelida, i seni turgidi, il corpo scosso da brividi di freddo e da tremiti di desiderio, con i capelli bagnati che le creavano rivoli e cascatelle sulle morbide curve: egli la strinse a sé e il freddo scomparve, mentre le gocce rigavano i corpi vinti dalla passione; raccolto un lenzuolo dalla cesta del bucato, l’asciugò e con un altro, ampio come un mantello, si avvolsero e stretti in un abbraccio quasi doloroso caddero e si amarono a lungo, con frenesia, i cuori in tempesta, come se fosse l’ultima volta, pur essendo la prima volta.


Pilòn rimase a lungo, quella notte, con il viso di lei posato sul suo petto, ad accarezzarle la schiena e le spalle. Rimase a lungo a guardare il cielo nero riflesso nei suoi neri occhi, a guardarvi brillare le stelle.


- Dimmi che mi amerai per sempre, Mio Pilòn


- Per sempre, Mia, - rispose veloce Pilòn, perché adesso era lui a non volerle far capire che piangeva.


Il sole rischiarava le cime: lei lo seguì con lo sguardo finché non lo vide scomparire dietro le rocce delle alte crete di Marcòra, poi raccolse la cesta ed il bucato e incamminandosi verso i casolari lontani pregò...


I cannoni da Carbonin assestavano il tiro, sembravano ancor più vicini e tra le rocce ormai l’odore del sangue era più intenso di quello della paura. Il giovane alpino aveva la gamba staccata appena sotto il ginocchio e il ventre lacerato; Pilòn lo raccolse nelle sue ampie braccia per portarlo al riparo. Mamma! chiamò con un fil di voce il ragazzo. Pilòn, accese un sigaro e glielo mise tra le labbra. “Stai qui, qui sei fuori tiro, - rispose, - chiudendogli gli occhi ormai spenti. Poi imbracciò il fucile, riempì le giberne di munizioni e salì sulla cresta. Caricò, mirò, centrò il soldato nemico in pieno petto. Questi ricadde sul sentiero con gli occhi spalancati al cielo ed ancora una volta a Pilòn si spezzò il cuore dal dolore e si sentì improvvisamente vecchio e stanco. Gli assaltatori erano ormai vicini, ma Pilòn, scostando il sergente, ormai esanime dalla postazione della mitragliatrice, difese la cengia, sparando e stroncando quella valanga grigioverde che saliva, finché nessuno più si mosse, sulle rocce rosse di sangue. Si guardò attorno, nessuno più si muoveva, solo alcuni alpini raccolti intorno alla radio da campo che gracchiava, gli fecero cenno con la mano. “E’ finita, vieni giù, è finita! Alla radio il Comando ha detto che la guerra è finita, vieni giù!”


Pilòn incredulo si erse, stagliandosi imponente contro il cielo improvvisamente più limpido, più chiaro. “Adesso torno, Amore mio, aspettami alla fontana” - pensò tra sé. Il cecchino austriaco mirò e premette il grilletto su quella sagoma così distinta e semplice da centrare. Sparò proprio mentre l’oberleutnant stava gridandogli di smettere, di smettere perché era tutto finito. Pilòn sentì un fuoco immenso proprio vicino al cuore e per un istante credette fosse amore, vide in un istante quegli occhi neri, vide la sua donna che aveva amato e sorrise, poiché era stata l’ultima ed anche la prima volta, poi capì che quella fiamma ardente era una ferita e che da quel foro la vita gli stava fuggendo e tentò ti tenerla stretta a sé portando le mani grandi e forti al petto, gridando con l’anima: “adesso no, adesso no!”. Dalla sua bocca non uscì la voce, ma un fiotto di sangue. Cadde lungo il ghiaione, cadde riverso sulla cengia sottostante, davanti all’alpenjaeger che aveva colpito poco prima e si stupì; era giovane, era così giovane, un ragazzino; lo riconobbe e ricordò di aver giocato assieme a lui, pochi anni addietro, e nuotato nel lago di Carbonin, prima che la guerra avesse deciso che le due valli, così vicine, divise da due curve di carrareccia e un boschetto, dovevano essere nemiche. Il ragazzo, con gli occhi quasi spenti e un rivolo di sangue che gli rigava il mento emise un gemito: “ wasser, wasser, bitte, wasser mein freund..”


Pilòn allungò la mano sulla sua borraccia di latta ammaccata, con le ultime forze svitò il tappo, l’allungò verso il ragazzo e si spense. Il sole ormai alto nel cielo non gettava ombre. Sulla cengia pietrosa due giovani erano distesi a terra, sembravano giocare, ma erano immobili, le braccia protese, le mani sulla stessa borraccia, come se volessero offrirsi l’un l’altro l’ultima goccia d’acqua.


Il paese era in fermento, le voci si rincorrevano nelle strette strade odorose di stallatico, molti corsero in chiesa a ringraziare il Signore, altri alzarono gli occhi verso le crode da cui, chi solo, altri a gruppi, gli Alpini stanchi, stremati, scendevano e correvano loro incontro. La ragazza lasciò cadere la cesta del bucato da risciacquare e andò alla fontana appresso al Boite; era là, come d’accordo, che l’avrebbe aspettato. Aspettò, aspettò fino a notte, aspettò per settimane, mesi, anni.


Le macchine rombavano lungo le strade che avevano da anni coperto d’asfalto le polverose mulattiere. Un gruppo di turisti si fermò alla fontana per bere l’acqua fresca e salutarono l’anziana donna che, seduta sul bordo del lavatoio sembrava attendere. L’età non aveva scalfito l’antica bellezza e profumava d’erba e di sapone da bucato. Lei ricambiò il saluto con un lento cenno del capo: sembrava sorridere. I turisti ripresero il sentiero, per scendere verso il ponte di legno, attraversare il torrente e salire al Rifugio Venezia, sotto il Pelmo, mentre la guida raccontava di uomini e di donne di quelle valli, di guerre ormai dimenticate, d’eroi, imprese e leggende. In quelle valli si sente spesso parlare della donna che aveva aspettato ogni sera alla fontana il suo compagno: l’aveva atteso per anni ed anni, poi, una sera, misteriosamente, era scomparsa e di lei non era rimasta traccia, solamente la cesta del bucato e qualche lenzuolo sull’erba. Ma alcuni giurano che un giovane alto, robusto, era sceso dalle crode, lungo le ghiaie tra Marcòra e l’Antelao, in una notte di luna, una di quelle notti in cui le cime splendono alla sua intensa luce azzurra. Era comparso all’improvviso presso la fontana, aveva stretto a sé la vecchia donna in attesa e, aprendo un lenzuolo fresco ed asciutto, l’aveva fatto roteare per aprirlo e farlo scendere come un’ala candida e leggera su quell’abbraccio. Dicono poi che, quando il lenzuolo si fu posato sul prato, i due innamorati erano già svaniti nella tiepida brezza estiva. Dove siano finiti non ve lo dirà nessuno; anche coloro che credono di saperlo e quelli che lo sanno davvero non vi diranno nulla di più, perché è un segreto, un segreto degli Alpini.


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