mercoledì 8 febbraio 2012

IL SEGRETO DI YEHOSHUA - SULLA VIA DI MIKHAEL - Claudio Marcon & Moises Mirandel


Seconda Edizione Speciale riveduta e aggiornata. Nuova copertina.
Il viaggio del giovane Angelos attraverso l'Impero Romano del secolo IV. Un viaggio per proteggere il misterioso manoscritto che la chiesa di stato e l'imperatore Costantino vogliono distruggere. Un viaggio alla ricerca della verità, lungo la misteriosa Via dell'Arcangelo, che parte dalla Galilea e, attraverso l'Europa, giunge alle remote e inaccessibili scogliere di Skellig Mikhael, al largo dell'Irlanda, nell'Atlantico Settentrionale. Un viaggio difficile, tra duelli e battaglie, una storia d'amore e di avventura. Un viaggio di fede. Cerys, la giovane guerriera celtica dai capelli rossi, il vecchio e saggio Gwilym di Aurelianum, il Gran Maestro Spyridon, amico di Costantino e capo della Fratellanza Eclettica. Il misterioso Nemico che insidia Angelos e un insperato Amico. Un romanzo che vi farà cadere nella storia, una storia che ognuno di noi vorrebbe vivere.
Richiedetelo a claudiomarcon2@gmail.com. Vi sarà spedito senza spese postali.
Buona lettura
Claudio Marcon & Moises Mirandel, autori

martedì 7 dicembre 2010








Il Segreto di Yehoshua
Presentato alla Rassegna Più Libri Più Liberi
Roma Eur - 5 dicembre 2010

giovedì 21 ottobre 2010

piove - Claudio Marcon


goccia a goccia, come una liquida clessidra,


la pioggia conta i minuti della nostra assenza


con le lacrime del tempo,


ma so che, come il sole riappare sempre,


calda, splendente, riempirai nuovamente


i miei occhi, mia Luce




lunedì 27 settembre 2010

Il Segreto di Yehoshua

In ottobre uscirà il libro
IL SEGRETO DI YEHOSHUA
LIBRO PRIMO
VIAGGIO SULLA VIA DELL'ARCANGELO
di Claudio Marcon e Moisés Miran Delgado
per MGC Management Edizioni - Roma

domenica 20 giugno 2010

Cometa de amor/Cometa d'amore - Claudio Marcon y Moises M. Delgado



¿Qué pasará, que de noche me despierta
un perfume cálido y sedoso
que enciende de repente mi deseo
y agita mi mente y pensamientos?
Llega improviso y discreto,
lo detendría, sí, con gusto,
ese sensual, ardiente cometa
que marca de repente mi cielo;
una luz de fuego que deslumbra,
que desgarra, del sueño, su velo,
descubre mi corazón escondido,
anegándolo en un lago de crema;
luego comprendo: me sueñas, te siento,
y, llamándote, me duermo de nuevo.

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Otoño - Claudio Marcon y Moisés M. Delgado



Amar, dormir, hacer el amor
y descansar si luego la lluvia
nos mantiene en el lecho y volver
a reír, desairarnos y jugar
rogar que el tiempo no pase...

mercoledì 16 giugno 2010

Atardecer - Claudio Marcon y Moisés Miranda Delgado



Dos gaviotas se deslizaban lentas
sobre la aérea e invisible corriente,
planean, dulcemente se elevan
con majestuosos movimientos
de sus blancas alas, indiferentes
a la tierra y sus tormentos.

Criaturas del aire, del mar,
vuelan hacia el sol que desaparece
más allá del borde del mundo
en este silencioso atardecer
que haría soñar
si los sueños no se ahogaran
en este eterno mar.

Es azul el horizonte, después añil, rojo,
y quisiera volar con la mente
pero no puedo.

venerdì 21 maggio 2010

Saffo (Trad. di S. Quasimodo)



E' tramontata la luna
e tramontate sono le Pleiadi.
E' mezza notte.
Il tempo scorre.
Ed io giaccio sola.


δεδυκε μεν α σελαννα
και Πληιαδες, μεσαι δε
νυκτες, παρα δερχετ ωπα
εγω δε μονα κατευδω

Ed è notte... - Claudio Marcon


…ed è notte.
La notte che libera l'anima
nel volo senza barriere né sipari,
sotto un cielo dove i pensieri cadono
silenziosi, come gocce di stelle sulle lenzuola
e scrivono, scrivono parole di attesa e amore
di passione e follia, di gioia e desiderio,
scrivono sulle lenzuola: i fogli bianchi
del nostro letto segreto e scrivono
ogni abbraccio e ogni sonno,
ogni bacio e ogni respiro.
Il nostro letto è un libro
che non racconta
la nostra poesia

della notte.

E ora è notte...

Il profumo della rosa - (L'estadela de San Martin, 1958) - Biagio Marin 1891-1985



T'hè levao ogni fogia
comò a una rosa
che se desfogia
per vêghete el boton co' l'oro.
No l'hè catao;
ma 'l to profumo m'ha 'mbriagao
e adesso moro
de tanta vogia
de quel profumo andao,
disperso
comò un gno verso
desmentegao

Per il mio cuore - Pablo Neruda -


Per il mio cuore basta il tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.
Dalla mia bocca arriverà fino in cielo
ciò che stava sopito sulla tua anima.

E' in te l'illusione di ogni giorno.
Giungi come la rugiada sulle corolle.
Scavi l'orizzonte con la tua assenza.
Eternamente in fuga come l'onda.

Ho detto che cantavi nel vento
come i pini e come gli alberi maestri delle navi.
Come quelli sei alta e taciturna.
E di colpo ti rattristi, come un viaggio.

Accogliente come una vecchia strada.
Ti popolano echi e voci nostalgiche.
Io mi sono svegliato e a volte migrano e fuggono
gli uccelli che dormivano nella tua anima.

lunedì 17 maggio 2010

Iscinta e scalza... - Boccaccio



Iscinta e scalza, con le trezze avvolte,
e d'uno scoglio in altro trapassando,
conche marine da quelli spiccando,
giva la donna mia con le altre molte.

E l'onde, quasi in sé tutte raccolte,
con picciol moto i bianchi piè bagnando,
innanzi si spingevan mormorando
e ritraènsi iterando le volte.

E se tal volta, forse di bagnarsi
temendo, i vestimenti in su tirava,
sì ch'io vedeo più della gamba schiuso,

oh, quali avria veduto allora farsi,
chi rimirato avesse dov'io stava,
gli occhi mia vaghi di mirar più suso!

Via del Monte - da "Tre Vie" - Umberto Saba



A Trieste ove son tristezze molte,
e bellezze di cielo e di contrada,
c’è un’erta che si chiama Via del Monte.
Incomincia con una sinagoga
e termina ad un chiostro; a mezza strada
ha una cappella; indi la nera foga
della vita scoprire puoi da un prato,
e il mare con le navi e il promontorio,
e la folla e le tende del mercato.

Trieste - Umberto Saba



Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un'erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.

Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

da: Miramar - Giosuè Carducci



O Miramare, a le tue bianche torri
attediate per lo ciel piovorno
fosche con volo di sinistri augelli
vengon le nubi.
Miramare, contro i tuoi graniti
grige dal torvo pelago salendo
con un rimbrotto d'anime crucciose
battono l'onde.
Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
stanno guardando le città turrite,
Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo,
gemme del mare;
e tutte il mare spinge le mugghianti
collere a questo bastion di scogli
onde t'affacci a le due viste d'Adria,
rocca d'Absburgo;
e tona il cielo a Nabresina lungo
la ferrugigna costa, e di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
leva tra' nembi.

Ed è subito Sera - Salvatore Quasimodo


Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

martedì 10 novembre 2009

Dov'è lo studente che ha contestato il potere in Iran?

Dov’è lo Studente iraniano che ha contestato l’ayatollah Ali Khamenei durante la Conferenza Nazionale delle Giovani Elite?

Come dicono molti articoli giornalistici, lo studente Mahmud Vahidnia, vincitore delle Olimpiadi della Matematica, parla all’Assemblea e critica le televisioni e le radio di Stato, il clima poliziesco che controlla ed opprime la stampa, l’impossibilità di esprimere qualsiasi critica alla Guida Suprema e la struttura del potere in Iran, nelle mani del Consiglio dei Guardiani e dell’Assemblea degli Esperti, che impediscono la democrazia

Ci sono notizie del suo arresto da parte della polizia politico—religiosa, ma internet riporta anche voci che dicono che egli sia libero, in un luogo sicuro, al riparo dalla luce dei riflettori…

Questo semplice protagonista del desiderio di libertà è solo? Perché il mondo non si mobilita per sapere quale sarà il suo destino ed impedire che sia messo a tacere?


Da "Il Messaggero"


ROMA (31 ottobre) - L'ayatollah Ali Khamenei partecipa alla Conferenza nazionale delle Giovani Elite. Uno studente, Mahmud Vahidnia, vincitore delle Olimpiadi della Matematica, prende la parola e critica «le tv e radio di stato, il clima poliziesco che circonda la stampa, l'impossibilità di esprimere critiche alla Guida Suprema e la struttura di potere nel Paese incarnata dal Consiglio dei Guardiani e l'Assemblea degli Esperti», che imbriglia la democrazia.

Quel ragazzo, secondo quanto riporta il blog
homylafayette.blogspot.com di opposizione iraniana, rilanciato dal sito iranian.com, è stato arrestato. Lo studente, stando a quanto riferito dal blog, mercoledì ha preso la parola a Teheran durante un incontro ufficiale dello stesso Khamenei con le elite universitarie del Paese, e da giovedì, secondo informazioni non confermate, sarebbe nelle mani dei Guardiani della Rivoluzione.


Rivoltosi a Khamenei, che presiedeva l'incontro, Vahidnia ha chiesto più tempo per poter finire il suo discorso e la Guida suprema, sempre secondo il blogger, avrebbe detto: «Vorrei che proseguisse. Il tempo è già esaurito ma lei vada avanti».

giovedì 14 maggio 2009

ti aspetterò

ti aspetterò
fino alla fine del tempo
e arrivando alla fine
chiederò a Dio di tornare
mille vite a soffrire,
non importa quanto,
per poterti cercare;
ti cercherò,
mi dovessi smarrire,
ti saprò ritrovare
e se dovessi scoprire
di non poterti incontrare,
se dovessi vivere
e vederti passare
senza che Dio
mi volesse esaudire,
e ti dovessi vedere
per tutta una vita
senza poterti sfiorare,
senza farti accorgere
di tutto il mio amore
ti saprei aspettare,
anche se Dio
mi dovesse punire
per farci incontrare
l'ultimo giorno
e poi farmi morire,
ti saprei aspettare
e non chiederei altro
che solo un giorno
anche l'ultimo giorno
di una vita da solo,
anche solo un minuto
per poterti baciare,
per non svanire
senza dirti il mio amore

mercoledì 25 febbraio 2009

I colori della mia terra

Il Carso è una striscia di terra che circonda Trieste. Vista dal mare, quand'ero bambino, la città sembrava una mano con le dita aperte aggrappata ai declivi che dall'altopiano scendevano verso la costa. Ora, Trieste si estende e si protende fin oltre il ciglio che un tempo, in autunno, rosseggiava di sommacco e donava, nelle giornate di brezze settentrionali, profumi di resina e di terra rossa. Il Carso è una landa rocciosa ricoperta da un sottile strato di questa terra in cui l'erba si abbarbica ed è facile sradicarla. Afferrandone i ciuffi con una mano possiamo strapparla, mettendo a nudo un lembo di questo deserto di pietra che, qua e là ancora emerge, nei campi carreggiati modellati dalla pioggia e scolpiti dal vento. Il Carso si apre in voragini improvvise che sprofondano nel buio, in grotte dove l'acqua che gocciola dalle volte, costruendo fantastiche architetture, compone liquide melodie.
L'autunno esplode di colori che scaldano per l'ultima volta il Carso, prima del gelo invernale. Questa terra sta scomparendo: strade e cemento hanno reso impossibili gli spostamenti degli animali e quelli che osano evadere si perdono spesso in mari d'asfalto tra odori che non riconoscono o vengono travolti dal traffico. Questi sono i colori di quel poco che rimane della mia terra.















































mercoledì 21 gennaio 2009

La forza della mente - Film con Emma Tomphson

Alcuni giorni fa ho visto un film che consiglio a tutti: La forza della mente. Mi ha riportato violentemente ai tempi del mio lavoro in ospedale. Non dirò nulla di più. La poesia con cui si conclude questa incredibile ed attualissima storia, tradotta in italiano, è sublime. Il giorno muore, al tramonto, non il sole, che domani tornerà, splendente, per un giorno nuovo.


Morte,
non essere fiera.
Pur se taluni t'abbiano chiamata terribile e possente,
perchè tu non lo sei,
che quei che tu credi di travolgere
non muoiono,
povera morte
nè tu puoi uccider me.
Tu, schiava del fato, del caso, di re e di disperati;
tu, che ti nutri di guerre, veleni e malattie,
oppio e incantesimi ci sanno addormentare
ugualmente e meglio di ogni tuo fendente.
Perché dunque insuperbisci?
Trascorso un breve sonno,
veglieremo in eterno
e morte più non sarà,
morte
tu morrai

"The Divine Poems" by John Donne edited by Helen Gardner
traduzione di Beatrix Potter (of Frederich Warne & Co.)

venerdì 16 gennaio 2009

l'elleboro verde

Aprendo la finestra, ogni mattina, il primo respiro gelido mi porta l’intenso profumo del calycanthus. I suoi fiori dal giallo sbiadito passerebbero inosservati, tra le ultime foglie secche ancora appese e la neve ghiacciata, aggrappata ai lunghi e sottili rami ricurvi, se il loro profumo non impregnasse l’aria, confermando la persistenza di questo rigido inverno. Nemmeno la daphne è ancora fiorita, indecisa, con le gemme rigonfie, in attesa. Ma oggi, in giardino, è sbocciato l’elleboro.
Mi ha ricordato un amico di tempi lontani che, nelle frequenti camminate sul Carso, mi mostrava la rigogliosa esuberanza dell’elleboro verde che, tra chiazze di neve e tappeti di foglie marcescenti, esplodeva con le sue foglie dai margini seghettati e il grosso fiore, nel bosco invernale. “E’ l’elleboro verde” diceva. “La prima pianta dell’anno. Bella e velenosa”. Indugiava un attimo, poi guardava il cielo e infine annunciava: “l’inverno è finito, ormai arriva primavera”.
La consapevolezza di due mesi di bora e pioggia gelata non sembrava offuscare quella sua convinzione. Sorridevo e continuavo a camminare nel paesaggio naϊf del mio Carso, poiché non aveva senso discutere quella sua irrevocabile sentenza, ma mi chiedevo dove trovasse tanto ottimismo, mentre affondavo le mani gelate nelle tasche del giaccone.


Dopo quasi quarant’anni ho ricordato che quell’antico amico affrontava sempre tutto con un sorriso, mentre già le prime foglie rosse dell’autunno che, tra l’altro, in questa mia terra potrebbe dar lezioni di pittura al più colorato degli arcobaleni, mi fanno cadere ogni volta ed ogni anno di più, nella malinconia.

Oggi, però, vedendo l’elleboro fiorito, il mio primo pensiero è stato: “l’inverno è finito, arriva la primavera”, pur conscio che ci saranno almeno ancora due mesi di pioggia e di neve e la bora urlerà piegando i pioppi. Perché? Poi ho capito.

Andando incontro ad un futuro, per quanto incerto, con l’anima leggera, accorciamo il tempo che, al contrario, si dilata e rende spinosa anche la malinconia delle brevi attese


giovedì 15 gennaio 2009

DESEO - Federico García Lorca


Deseo

Sólo tu corazón caliente,
Y nada más.
Mi paraíso, un campo
Sin ruiseñor
Ni liras,
Con un río discreto
Y una fuentecilla.
Sin la espuela del viento
Sobre la fronda,
Ni la estrella que quiere
Ser hoja.
Una enorme luz
Que fuera
Luciérnaga
De otra,
En un campo de
Miradas rotas.
Un reposo claro
Y allí nuestros besos,
Lunares sonoros
Del eco,
Se abrirían muy lejos.
Y tu corazón caliente,
Nada más.

La Rivière



Jacques Prévert


La Rivière


Tes jeunes seins brillaient sous la lune
mais il a jeté
le caillou glacé
la froide pierre de la jalousie
sur le reflet
de ta beauté
qui dansait nue sur la rivière
dans la splendeur del l'été.

Los signos del tempore - I segni del tempo


Un die, un amico, Ingmar, me donavit ista poesia que io hae traducito. Non sae ubi ille seat nunc, il est absente a multo tempore. La scribeo, esperando su returno.


le cicatrici della mia vita
sono i segni esistenziali
intagliati nel profondo
della mia anima
come in una vecchia quercia;
un nome inciso
da una mano giovane
che con la corteccia cresce;
così m’accompagna
fino alla fine
questa ferita antica inflitta in anni e tempi;
ora, leggendo
questi segni, so che l’intagliatore
già da tempo è morto
ma l’albero rimane, è.

las cicatrices de mi vita
sont los signos existentiales
incisos in le profundo de mi anima
quomo in un vetulo querco;
un nomine inciso
ab una mano juvene
que cum la cortice crescet;
assi me accompaniat
usque a la fin,
ista ferita antiqua,
inflicta in annos et tempores;
nunc, legendo
istos signos, sae que l’incisor
jam a multo tempore hat morto,
sed l’arbor remanet, est.

martedì 13 gennaio 2009

ISTRIA: GLI ITALIANI «PRIGIONIERI»


• da Corriere della Sera del 13 gennaio 2009, pag. 1 di Gian Antonio Stella

-

Sarà un filo di seta», avevano giurato 18 anni fa costruendolo in poche ore sull'orto di piselli della signora Anna Del Bello Budak. Quel confine fra Slovenia e Croazia, invece, è diventato una piccola cortina di ferro. E a causa di una nuova guerra (fredda) fra i due Stati ex jugoslavi gli italiani di Buje, Umago o Rovigno non sono mai stati tanto separati dall'Italia. Neppure sotto i comunisti titini. Non c'era mai stato un confine lì, a segare in due orizzontalmente la penisola istriana. Non sotto i romani, non sotto Venezia, non sotto gli Asburgo, non sotto Napoleone e di nuovo sotto l'impero austroungarico. Mai. Certo, si era via via delineata una sorta di confine amministrativo, sancito come tale all'interno delle frontiere del Regno di Jugoslavia, poi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Ma mai un confine vero e proprio fino a quando nella primavera del 1991, su quel curvone dell'antica via Flavia tracciata da Vespasiano, a poche decine di metri dal ponte sul fiume Dragogna, nel nordovest dell'Istria, non apparvero le ruspe. Strappata al tavolo dove stava pranzando dall'assordante rumore delle pale, Anna Del Bello si precipitò fuori correndo stupefatta e ansante verso l'orto: «Fermi! Fermi! Cos'è questa storia?». Gli operai la guardarono indifferenti: «Ordini superiori». «Non potete farlo!» «Ordini superiori». «Mostratemi le carte! Questa è terra mia!». «Ordini superiori ». E sotto gli occhi della povera vecchia in lacrime, rovesciarono tonnellate di ghiaia sulle piantine di patate, sradicarono gli alberelli di pesche, seppellirono le «commesse» di cipolle e pomodori.

Meno di tre giorni dopo, c'era già il confine. «Ma no, non confine: è solo un punto di sosta per i camion», giurava ridendo il direttore dei lavori Matia Potocar, «solo cestna. Capito? Ristrutturazione cestna: strada». Il «Piccolo» di Trieste scrisse di una «tragica guerra dei bottoni». «Non esageriamo», sbuffava un alto funzionario della Milicja di Capodistria, «sarà soprattutto un confine dimostrativo. I cittadini circoleranno liberamente...». Falso. Pochi mesi dopo, gli abitanti della zona, per secoli in larga maggioranza italiani, si raccontavano storie pazzesche. Come quella di Duilio Visentin che, colpito da una emorragia interna, era stato portato da un paesino vicino a Portole, nell'Istria oggi croata, verso l'ospedale più vicino di Isola, che però adesso era al di là del confine, in Slovenia: «Mio marito sta morendo». «Documenti! » «Muore!» «Senza documenti non si passa!» «Vi prego...». «Documenti!».

A Villa Cucini, sulle alture nel cuore della penisola, si ritrovarono in Slovenia con la chiesa e il cimitero in Croazia, col risultato che per portare il morto nella tomba di famiglia ora ci voleva il lasciapassare e un po' di carte bollate per l'estradizione della salma. Per non dire degli abitanti di Bresovizza il giorno che si precipitarono coi secchi e i badili a spegnere l'incendio a una casa al di là della nuova frontiera: «Altolà! Documenti». Virgilio Babich, che stava proprio sul Dragogna e non se n'era andato con tutti gli altri italiani per restare col vecchio padre («Uno sbaglio di cui mi sono pentito sempre ») raccontava amaro di essere nato italiano per poi diventare jugoslavo, sloveno e infine croato «senza mai muovermi da casa mia». E quando gli piazzarono il nuovo confine sotto il naso, col casolare da una parte e un po' di terreno dall'altra, lo fecero ammattire: «La bolletta della luce mi arriva da Buie che è in Croazia, e l'acqua da Capodistria, in Slovenia, l'ufficio tavolare è a Pirano, il catasto ancora a Capodistria...».

Ci sarebbe da sorridere se la situazione, col passare degli anni, non fosse diventata sempre più pesante. Tutto a causa di un altro confine, quello marittimo. Sul quale sloveni e croati si sono via via irrigiditi. Al momento della Commissione internazionale, presieduta da Robert Badinter, costituita dopo la dissoluzione della Jugoslavia, pareva che tutto fosse chiaro: «Le nuove frontiere rimangono quelle delle Repubbliche socialiste». Ma quelle nel mare del golfo di Trieste, prima inesistenti? A sentire i croati, che non a caso arrivarono nei primi anni Novanta ad arrestare Sergio Parentin, un vecchio pescatore di Pirano che aveva trascorso tutta la vita lavorando nel golfo stretto tra la sua cittadina e la dirimpettaia Salvore accusandolo di avere gettato le reti in acque a lui vietate, il confine «naturale» c'è: è il proseguimento immaginario del Dragogna tracciato esattamente a metà del golfo. Eh no, rispondono gli sloveni: piazzato lì, quel confine marittimo, a causa della vicinanza delle acque territoriali italiane, impedirebbe a Lubiana di avere un accesso diretto alle acque internazionali. Quindi? Vogliono tutto il golfo di Pirano. Cosa che i croati si rifiutano di accettare.

Risultato: ne è nato un braccio di ferro. Sempre più duro. Al punto che la Slovenia, entrata un anno fa nell' area del trattato di Schengen, si è messa di traverso all'ingresso della Croazia nella Ue, ponendo il veto, finché i croati non cederanno: hanno già tanto mare! Perché impuntarsi su pochi chilometri? Affari loro, direte: si arrangino. Il guaio è che questa «guerra fredda » intorno a quel golfo per secoli venezianissimo, come denuncia il leader dell'Unione Italiana Maurizio Tremul che ne ha parlato ieri anche a Franco Frattini in visita a Zagabria e a Pola, va a pesare sulla vita stessa della nostra minoranza nell'Istria croata. In particolare su quelli dell'ex «zona B». Con l'entrata della Slovenia nell'area Schengen, Lubiana e Roma concordarono infatti la decadenza dell'Accordo di Udine del '55 che prevedeva per gli italiani d'Istria di «lasciapassare » e valichi secondari e tutta una serie di facilitazioni che rendevano più sottile il confine con la patria perduta. Decadenza decisa, in parallelo, anche dalla Croazia.

Risultato: il confine tra la Slovenia e l'Italia, che per decenni segnò la frontiera tra l'occidente democratico, la Jugoslavia e i Paesi dell'Est, è stato smantellato e non c'è più. Ma quello sul Dragogna, come denuncia «Il Piccolo» sul quale si è riacceso il dibattito sulla riconciliazione, è diventato il nuovo confine meridionale europeo. Più duro. Più rigido. Più difficile da superare per gli italiani, paradossalmente, di quello comunista che per decenni faceva loro sanguinare il cuore a ridosso di Trieste.

La rosa innamorata - Mark McLaud; Traduction a Romanica per Carlos Alberto Da Silva Santos


La notte era gelida e nonostante gli strati che la proteggevano,
La nocte esseva gelida, et, nonobstante los stratos que la protegevan,
rabbrividiva e nel torpore del lungo sonno che precedeva quella sua nascita,
illa tremeva de frigido et, in le torpor del longo somno que precedeva illa sua nascentia,
i suoi sensi acutissimi percepivano buio, freddo, isolamento.
sus sensos acutissimos percipevan obscuritate, frigor, isolamento.
Iniziò a destarsi, lentamente, intirizzita cercò di stirarsi, tendersi,
Comenciavit a eveliar se, lentamente; rigida, cercavit de allongar se, extender se,
ma era coperta strettamente e no riusciva a muoversi.
mais esseva coperta strictamente et non succedeva mover se.
Per un attimo il panico la colse, in quel semivigile dormiveglia,
Per un instante le panico la assalivit, in illa semivigile somnolentia,
poi un flusso benefico, come un fluido generoso la rinvigorì.
post un fluxo benefico, como un fluido generoso, la revigoravit.
Rafforzata ripetè lo sforzo, ma invano. Avvolta da tenaci coperte,
Reinfortiata, repetevit le effortio, ma in vano. Involvita per tenaces coperturas,
che per quanto confortevoli, non le permettevano alcun movimento,
que, per quanto confortabiles, non le permittevan alicun movimento,
si svegliò, immediatamente rassegnata e vinta.
se eveliavit, immediatamente, resignata et vincita.
Un attimo di tristezza velò sua percezione priva di occhi.
Un momento de tristessa velavit su perception, disprovista de oculos
che le avrebbero mostrato il mondo attorno,
que le haberean monstrato le mundo circum,
mentre un cinguettìo di uccelli accompagnava un tenue chiarore.
mentre le trillar a bassa voce de avettas accompaniava una tenue claritate.
Le sembrò che la morsa della notte si fosse attenuata, insieme all'aumento della luce.
Le parevit que la strictura de la nocte fuisse attenuata, insimul con le augmento de la luce.
Comprese che proprio la luce, che cresceva d'intensità, veniva accompagnata
Comprendevit mesmo que la luce, que cresceva in intensitate, veniva accompaniata
da un maggior flusso dell'energia benefica che saliva e la pervadeva tuttta.
de un major fluxo de la energia benefica, que saliva et la pervadeva tota.
Poi la luce divenne calore e non seppe spiegarselo, ma vi si adagiò,
Postea la luce devenivit calor, et illa non sapevit explicar se lo, ma ad illo se abandonavit,
sentendo che, allo stesso tempo le avvolgenti coperte allentavano lo stretto abbraccio.
sentiendo que al mesmo tempore las coperturas involventes relaxavan le stricto imbraciamento.
Attese.
Attendevit.
Un sonno improvviso l'aveva colta e, svegliandosi del tutto, adesso, ricordò:
Un somno improviso la habeva colligito, et, eveliando se del toto, ora illa memoravit:
aveva sognato ali grandi, leggere e colorate e un cielo azzurro.
habeva soniato alas grandes, legieras et coloratas, et un celo azur.
Ancora pervasa da quella sensazione ascoltò con tutti i suoi sensi accesi:
Ancora pervadita per illa sensation, ascoltavit con omnes sus sensos acutiatos:
la luce adesso era vivida, anche se la percepiva attraverso una velatura verde tenue
la luce nunc esseva vivida, mesmo si la percipeva a transverso de un velo verde tenue
e il bisogno di stendersi era potente.
et le desiro de extender se era potente.
Il sole accese il mondo e la colpì, con una carezza ardente e benefica.
Le sol accendevit le mundo et la colpivit con una caressa ardente et benefica.
Subito quell'energia fluente, come linfa vitale la rafforzò
Subito aquella energia fluente, como lympha vital la reinfortiavit
e sentì davvero di avere le ali del sogno.
et sentivit veramente haber las alas del sonio.
Raccolse le forze e estese ogni sua parte e finalmente capì
Recolligevit las fortias et extendevit omne sua parte et finalmente comprendevit
che le avvolgenti coperte, ora calde e lucenti cedevano.
que las involventes coperturas, ora calidas et lucentes, cedevan.
Il bocciolo si aprì di scatto e i petali rossi si dispiegarono, aprendosi alla luce,
Le button se aperivit rapidamente et los petalos rossos se displicaveron, aperiendo se a la luce,
si stendevano sempre più grandi e via via che si aprivano alla calda carezza del sole.
se extendevan semper plus grandes et via via que se aperivan a la calida caressa del sol.
La rosa si aprì, si lasciò baciare dal sole, s'inebriò alla brezza tiepida
La rosa se aperivit, se lassavit basiar per le sol, se inebriavit de la brisa tepida
che le aveva fatto immediatamente dimenticare il malessere gelido della lunga notte
que la habeva facto immediatamente oblidar le malesser gelido de la longa nocte
prima della sua nascita.
ante su nascentia.
Gli uccelli saettavano nel cielo e ne percepì, vibranti, le ali frementi;
Las avettas sagittavan per le celo, et de illas percipevit, vibrantes, las alas frementes;
gioì per il candore delle piccole nubi bianche e veloci, fu lusingata
gaudevit per le candor la perfection de las parvas nubes blancas et veloces; fuit flattata
della prima visita di una farfalla che la baciò e la fece arrossire, di un carminio acceso.
per la prima visita de un papilion, que la basiavit et la facevit erubescer de un rubor ardente.
Si sentì adulta, immediatamente e si chiese il perché della sua nascita.
Se sentivit adulta, immediatamente, et se demandavit le perque de su nascentia.
Quel meraviglioso mondo sembrava non avere confini, certo,
Aquelle mundo meravilioso semblava non haber confines, certo,
ma un motivo ci doveva essere, un motivo più alto, "lo sentiva".
sed un motivo debeva exister, un motivo plus alto, "lo sentiva".
Godette il sole che si alzava ed ora splendeva dritto su di lei.
Gaudevit le sol que se altiava et ora splendeva directo supra illa.
Aprì i petali e, discinta, scoprì il suo cuore dorato al centro della corolla.
Aperivit los petalos et, liberamente, discoperivit su corde aurato in le centro de su corolla.
Un'ombra improvvisa apparve oscurando il sole. Un sorriso. Un viso.
Una umbra improvisa apparevit obscurando le sol. Un surriso. Un visage.
Ma nessun timore. Percepì la gioia nella creatura immensa che la sovrastava,
Ma necun timor. Percipevit le gaudio in la creatura immensa que la suprastava,
sentì la carezza sotto di sé quando egli le pose il palmo sotto il calice.
et sentivit la caressa sub se quando ille le ponevit la mano sub le calice.
Perse quasi i sensi dal piacere quando egli l'annusò; se ne innamorò,
Perdevit quasi los sensos per le placer quando ille la olfacievit; et de ille se inamoravit,
quando le labbra di lui le rubarono il sapore dei petali. Sei bellissima,
quando los labios de ille la robaveron le sapor de los petalos. Es bellissima --
le disse il pensiero, la più bella rosa del mio giardino.
le dicevit le pensamento --, la plus bella rosa de mi jardin.
Lei visse a lungo, fin quando il sonno la colse prima di vedere
Illa vivevit longamente, usque quando le somno la sasivit ante de vider
i meravigliosi petali avvizzire, e, addormentandosi ringraziò il suo meraviglioso
los meraviliosos petalos desiccar se, et, addormiendo se, regratiavit su meravilioso
amante nel momento in cui la recise, percependo il suo pensiero:
amante in le momento in quo la excidevit, percipiendo su pensamento:
ti conserverò tra le pagine del mio libro preferito.
io te conservarai inter las paginas de mi libro preferito.
Ma la sua anima viveva, perché si svegliò: precipitava lungo un tunnel,
Ma su anima viveva, nam illa se eveliavit: precipitava al longo de un tunnel,
verso il basso, veloce come il pensiero, immersa nella linfa vitale, calda, nutriente.
verso le basso, veloce como le pensamento, immersa in la lympha vital, calida, nutriente.
Mentre sopra di sé sentiva l'inverno gelare le zolle si addormentò,
Mentre supra se illa sentiva le hiberno gelar las terras, se addormivit,
felice e consapevole che, dopo un lungo sonno, si sarebbe nuovamente svegliata,
felice et consciente que, post un longo somno, illa serea novamente eveliata,
sbocciando, rosa innamorata.
florescendo, rosa inamorata.

I segreti degli Alpini

Già le lisce pareti delle Tre Cime, riflettendo come specchi scarlatti i bagliori del sole pomeridiano, promettevano un tramonto di ineguagliabile splendore; i lontani Tauri a settentrione emergevano dalle spesse nubi scure che ricoprivano le profonde valli e si ergevano con pinnacoli d’un cupo verde azzurro verso il cielo terso; come tutto sembra pulito, da quelle elevate altitudini di pietra, sotto un mantello sereno decorato da profondi blu, tali da provocare sensazioni di intensa vertigine, volgendo lo sguardo verso la volta del cielo che non verso gli immani baratri di dolomia. Pilòn, che controllava i legacci di cuoio delle salmerie, si stagliava sullo sfondo celeste, come l’ombra di un invisibile attore contro un sipario terso: un cielo pulito, preavviso di una sera tranquilla e fresca di profumi montani, quasi un aroma di lenzuola stese sui prati ad asciugare, per rubare ai fiori e all’erba la sapida fragranza. I muli, impastoiati sul sentiero sassoso, rumoreggiavano con gli zoccoli, frantumando il fragile pietrisco da cui si spandeva tutto attorno l’odore acre della pietra focaia, misto a quello caldo e rassicurante del manto e del fiato degli animali. Pilòn accarezzò il pelo liscio e lucido del suo mulo, dopo averne spazzolato a lungo le crine, poi, tenendo una grande mano su quel muso gentile ed ostinato, con l’altra accostata all’orecchio peloso e fremente dell’animale sussurrò qualcosa: il mulo parve annuire e quasi a confermare, sbuffò dalle froge umide una nuvola di vapore che svanì nell’aria frizzante del pomeriggio. Un giovane alpino, vedendo quel colloquio strano, si rivolse stupito a un compagno anziano:

- Ma, gli asini capiscono?


- E’ un mulo, non un asino; certo che capiscono.


- Ma và!


- Certo che capiscono; prima che finisca la guerra vedrai che anche tu parlerai con i muli.


- Ma che cosa ha detto al mulo, tu lo sai?


- No, sono segreti, segreti degli alpini, nessuno li può sapere e adesso taci, matricola!


- Mah, di sicuro gli ha detto che finisce la guerra.


- Sì, forse; solo il mulo sa quando finirà.


Il sole scivolava lento dietro una croda, disegnando lame di luce rossastra nel cielo che andava incupendo; Pilòn tolse dal taschino l’orologio antico, la vecchia “cipolla” del nonno, al quale il nonno l’aveva donata. Uno sguardo all’ora, poi mosse a grandi passi rumorosi verso il sergente, sapendo che l’amico non gliela avrebbe negata, quella pazzia.


- Magiòr, ho da andàr, domani, prima che nassa el sole sarò qua; prima della sveja.


- Pilòn, mi so che son mat però so che ti si mat più de mi, ma torna in tempo. I austriachi là sot i xè in fermento, domani i se svejarà presto, anca le piere se svejarà, no farme far la guera a mi solo.


Così, mentre il sole già iniziava a giocare con le cime ad occidente, striando di raggi vermigli il mantello azzurro del cielo, Pilòn partì come uno stambecco franando lungo i ripidi ghiaioni, con le gambe lunghe che emergevano dall’ondata di pietrisco e riaffondavano; quelle braccia aperte per equilibrare la corsa pazza verso valle, sembravano le immense ali di un’aquila planante.


Gli alpini, dalla cengia, guardavano stupiti il compagno che scivolava sicuro tra le rocce, cavalcando un’onda di ghiaia, in una nuvola di pietrisco e polvere bianca, ed anche quando, ormai nascosto dai mughi bassi e resinosi, fu invisibile all’ombra della croda, si poteva udire il rumore della sua corsa, quasi un sordo franare di una valanga lontana.


- Dove valo, Pilòn, così de corsa?


- Tasi, matricola, l’è un segreto.


- Un segreto?


- Un segreto dei Alpini, dormi adess, che ‘l prossimo turno de guardia riva presto.


Pilòn scese veloce, mentre nella sera le ombre si allungavano; la luna piena iniziava a rischiarare le candide sassaie del Pelmo e dipingeva di azzurro i piastroni dell’Antelao. Corse fino alle scivolose erbe dei prati, senza fermarsi, giù, verso il Boite che scorreva, cantando con le sue acque color latte e menta, sotto le scure e severe chiome degli abeti neri. Ecco, era apparso il campanile di pietra del villaggio e i rintocchi del vespero, ripetuti dalle eco si spandevano nelle valli immerse in una quiete quasi incredula, come se la guerra delle vette là, lungo i boschi odorosi di muschio e funghi, fosse solo una fiaba d’altri tempi, d’altri luoghi.


Presso la minuscola pieve di pietra la giovane, chinata sulla vasca del fontanile, raccoglieva con le mani l’acqua limpida e la spandeva ora sui polsi, ora sulle braccia, per salire poi fino alle ascelle ed alle spalle, infine ai seni che turgidi rispondevano alla frizzante carezza. Pilòn fermò la sua corsa e rimase sul bordo del prato per riprendere fiato, in silenzio, e per ammirare la sua amata, in quella scena riservata e solitaria di struggente ed intima dolcezza. Lei indossava soltanto la gonna ed il grembiule, sciolto dalle spalline merlettate, vi ricadeva sulle volute ampie. I piedi scalzi e rosei sembravano ancor più minuti sull’erba ancor tiepida del prato. Le strie candide di sapone, l’antico sapone da biancheria dal generoso aroma di pulito, scivolavano, deterse dall’acqua fredda, portata sulla pelle dalle mani chiuse a coppa.


Sulle guance abbronzate ricadevano ciocche di capelli bagnati che il chiaro di luna ornava di riflessi bluastri: il cuore impazzì nel petto di Pilòn, colmo d’amore e di desiderio. Ignara d’essere ammirata dal suo compagno, lei continuò a detergere la stanchezza della giornata dal petto e dal collo, da cui l’acqua scivolava; leggermente china sul lavatoio mostrava il corpo giovane e perfetto, i lunghi capelli ornavano un viso dai tratti delicati, le guance arrossate dal sole e dalla reazione all’acqua gelida donavano alla donna pennellate di pulita fanciullezza. Pilòn le si avvicinò, cauto, alle spalle e mentre con le braccia alzate lei si sistemava i capelli, l’abbracciò forte, stringendola a sé e le grandi mani forti e al tempo delicate le imprigionarono i seni. Lei ebbe un sussulto, ma l’inconfondibile contatto delle mani conosciute la tranquillizzò e, ruotando lentamente, sulle punte dei piedi scalzi, come in un ballo di carillon, avvinta nelle braccia amate, volse il corpo e lo sguardo verso il suo compagno per offrirgli gli occhi immensi e neri, la bocca rossa, le labbra morbide, tutta sé stessa.


- Sei tornato, Pilòn? Non devi partire? Dov’è il Reparto?


- E’ un segreto, Piccolina, un segreto degli Alpini – rise lui – ma mi chiamerai ancora per cognome?


- Un segreto, Pilòn? – rise anche lei.


- No, per te nessun segreto. Solo per questa notte, Fiore. Gli austriaci saliranno da Carbonin, sarà domani, chissà


- Domani?


- Profumi di fiori, d’erba, di sapone – aggiunse piano Pilòn alla sua donna, per uscire da quel discorso, da quella sensazione opprimente che gli serrava il cuore.


- Tu sai di mulo e di sudore, Pilòn! – scherzò lei, ridendo.


Così iniziò a spogliarlo, baciandoli il petto, affondando il viso sulla sua pelle, perché non voleva lui capisse che piangeva. La passione cancellò le paure, la guerra, l’universo attorno e finirono, nudi, nella gelida acqua del lavatoio, per lavarsi e accarezzarsi e baciarsi e scambiarsi la pelle, l’anima, il cuore. Lei uscì dalla vasca gelida, i seni turgidi, il corpo scosso da brividi di freddo e da tremiti di desiderio, con i capelli bagnati che le creavano rivoli e cascatelle sulle morbide curve: egli la strinse a sé e il freddo scomparve, mentre le gocce rigavano i corpi vinti dalla passione; raccolto un lenzuolo dalla cesta del bucato, l’asciugò e con un altro, ampio come un mantello, si avvolsero e stretti in un abbraccio quasi doloroso caddero e si amarono a lungo, con frenesia, i cuori in tempesta, come se fosse l’ultima volta, pur essendo la prima volta.


Pilòn rimase a lungo, quella notte, con il viso di lei posato sul suo petto, ad accarezzarle la schiena e le spalle. Rimase a lungo a guardare il cielo nero riflesso nei suoi neri occhi, a guardarvi brillare le stelle.


- Dimmi che mi amerai per sempre, Mio Pilòn


- Per sempre, Mia, - rispose veloce Pilòn, perché adesso era lui a non volerle far capire che piangeva.


Il sole rischiarava le cime: lei lo seguì con lo sguardo finché non lo vide scomparire dietro le rocce delle alte crete di Marcòra, poi raccolse la cesta ed il bucato e incamminandosi verso i casolari lontani pregò...


I cannoni da Carbonin assestavano il tiro, sembravano ancor più vicini e tra le rocce ormai l’odore del sangue era più intenso di quello della paura. Il giovane alpino aveva la gamba staccata appena sotto il ginocchio e il ventre lacerato; Pilòn lo raccolse nelle sue ampie braccia per portarlo al riparo. Mamma! chiamò con un fil di voce il ragazzo. Pilòn, accese un sigaro e glielo mise tra le labbra. “Stai qui, qui sei fuori tiro, - rispose, - chiudendogli gli occhi ormai spenti. Poi imbracciò il fucile, riempì le giberne di munizioni e salì sulla cresta. Caricò, mirò, centrò il soldato nemico in pieno petto. Questi ricadde sul sentiero con gli occhi spalancati al cielo ed ancora una volta a Pilòn si spezzò il cuore dal dolore e si sentì improvvisamente vecchio e stanco. Gli assaltatori erano ormai vicini, ma Pilòn, scostando il sergente, ormai esanime dalla postazione della mitragliatrice, difese la cengia, sparando e stroncando quella valanga grigioverde che saliva, finché nessuno più si mosse, sulle rocce rosse di sangue. Si guardò attorno, nessuno più si muoveva, solo alcuni alpini raccolti intorno alla radio da campo che gracchiava, gli fecero cenno con la mano. “E’ finita, vieni giù, è finita! Alla radio il Comando ha detto che la guerra è finita, vieni giù!”


Pilòn incredulo si erse, stagliandosi imponente contro il cielo improvvisamente più limpido, più chiaro. “Adesso torno, Amore mio, aspettami alla fontana” - pensò tra sé. Il cecchino austriaco mirò e premette il grilletto su quella sagoma così distinta e semplice da centrare. Sparò proprio mentre l’oberleutnant stava gridandogli di smettere, di smettere perché era tutto finito. Pilòn sentì un fuoco immenso proprio vicino al cuore e per un istante credette fosse amore, vide in un istante quegli occhi neri, vide la sua donna che aveva amato e sorrise, poiché era stata l’ultima ed anche la prima volta, poi capì che quella fiamma ardente era una ferita e che da quel foro la vita gli stava fuggendo e tentò ti tenerla stretta a sé portando le mani grandi e forti al petto, gridando con l’anima: “adesso no, adesso no!”. Dalla sua bocca non uscì la voce, ma un fiotto di sangue. Cadde lungo il ghiaione, cadde riverso sulla cengia sottostante, davanti all’alpenjaeger che aveva colpito poco prima e si stupì; era giovane, era così giovane, un ragazzino; lo riconobbe e ricordò di aver giocato assieme a lui, pochi anni addietro, e nuotato nel lago di Carbonin, prima che la guerra avesse deciso che le due valli, così vicine, divise da due curve di carrareccia e un boschetto, dovevano essere nemiche. Il ragazzo, con gli occhi quasi spenti e un rivolo di sangue che gli rigava il mento emise un gemito: “ wasser, wasser, bitte, wasser mein freund..”


Pilòn allungò la mano sulla sua borraccia di latta ammaccata, con le ultime forze svitò il tappo, l’allungò verso il ragazzo e si spense. Il sole ormai alto nel cielo non gettava ombre. Sulla cengia pietrosa due giovani erano distesi a terra, sembravano giocare, ma erano immobili, le braccia protese, le mani sulla stessa borraccia, come se volessero offrirsi l’un l’altro l’ultima goccia d’acqua.


Il paese era in fermento, le voci si rincorrevano nelle strette strade odorose di stallatico, molti corsero in chiesa a ringraziare il Signore, altri alzarono gli occhi verso le crode da cui, chi solo, altri a gruppi, gli Alpini stanchi, stremati, scendevano e correvano loro incontro. La ragazza lasciò cadere la cesta del bucato da risciacquare e andò alla fontana appresso al Boite; era là, come d’accordo, che l’avrebbe aspettato. Aspettò, aspettò fino a notte, aspettò per settimane, mesi, anni.


Le macchine rombavano lungo le strade che avevano da anni coperto d’asfalto le polverose mulattiere. Un gruppo di turisti si fermò alla fontana per bere l’acqua fresca e salutarono l’anziana donna che, seduta sul bordo del lavatoio sembrava attendere. L’età non aveva scalfito l’antica bellezza e profumava d’erba e di sapone da bucato. Lei ricambiò il saluto con un lento cenno del capo: sembrava sorridere. I turisti ripresero il sentiero, per scendere verso il ponte di legno, attraversare il torrente e salire al Rifugio Venezia, sotto il Pelmo, mentre la guida raccontava di uomini e di donne di quelle valli, di guerre ormai dimenticate, d’eroi, imprese e leggende. In quelle valli si sente spesso parlare della donna che aveva aspettato ogni sera alla fontana il suo compagno: l’aveva atteso per anni ed anni, poi, una sera, misteriosamente, era scomparsa e di lei non era rimasta traccia, solamente la cesta del bucato e qualche lenzuolo sull’erba. Ma alcuni giurano che un giovane alto, robusto, era sceso dalle crode, lungo le ghiaie tra Marcòra e l’Antelao, in una notte di luna, una di quelle notti in cui le cime splendono alla sua intensa luce azzurra. Era comparso all’improvviso presso la fontana, aveva stretto a sé la vecchia donna in attesa e, aprendo un lenzuolo fresco ed asciutto, l’aveva fatto roteare per aprirlo e farlo scendere come un’ala candida e leggera su quell’abbraccio. Dicono poi che, quando il lenzuolo si fu posato sul prato, i due innamorati erano già svaniti nella tiepida brezza estiva. Dove siano finiti non ve lo dirà nessuno; anche coloro che credono di saperlo e quelli che lo sanno davvero non vi diranno nulla di più, perché è un segreto, un segreto degli Alpini.