mercoledì 8 febbraio 2012
IL SEGRETO DI YEHOSHUA - SULLA VIA DI MIKHAEL - Claudio Marcon & Moises Mirandel
domenica 24 ottobre 2010
giovedì 21 ottobre 2010
piove - Claudio Marcon
lunedì 27 settembre 2010
Il Segreto di Yehoshua
IL SEGRETO DI YEHOSHUA
domenica 20 giugno 2010
Cometa de amor/Cometa d'amore - Claudio Marcon y Moises M. Delgado
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Otoño - Claudio Marcon y Moisés M. Delgado
mercoledì 16 giugno 2010
Atardecer - Claudio Marcon y Moisés Miranda Delgado
sobre la aérea e invisible corriente,
planean, dulcemente se elevan
con majestuosos movimientos
de sus blancas alas, indiferentes
a la tierra y sus tormentos.
Criaturas del aire, del mar,
vuelan hacia el sol que desaparece
más allá del borde del mundo
en este silencioso atardecer
que haría soñar
si los sueños no se ahogaran
en este eterno mar.
Es azul el horizonte, después añil, rojo,
y quisiera volar con la mente
pero no puedo.
venerdì 21 maggio 2010
Saffo (Trad. di S. Quasimodo)
Ed è notte... - Claudio Marcon
…ed è notte.
La notte che libera l'anima
nel volo senza barriere né sipari,
sotto un cielo dove i pensieri cadono
silenziosi, come gocce di stelle sulle lenzuola
e scrivono, scrivono parole di attesa e amore
di passione e follia, di gioia e desiderio,
scrivono sulle lenzuola: i fogli bianchi
del nostro letto segreto e scrivono
ogni abbraccio e ogni sonno,
ogni bacio e ogni respiro.
Il nostro letto è un libro
che non racconta
la nostra poesia
della notte.
E ora è notte
Il profumo della rosa - (L'estadela de San Martin, 1958) - Biagio Marin 1891-1985
Per il mio cuore - Pablo Neruda -
Per il mio cuore basta il tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.
Dalla mia bocca arriverà fino in cielo
ciò che stava sopito sulla tua anima.
E' in te l'illusione di ogni giorno.
Giungi come la rugiada sulle corolle.
Scavi l'orizzonte con la tua assenza.
Eternamente in fuga come l'onda.
Ho detto che cantavi nel vento
come i pini e come gli alberi maestri delle navi.
Come quelli sei alta e taciturna.
E di colpo ti rattristi, come un viaggio.
Accogliente come una vecchia strada.
Ti popolano echi e voci nostalgiche.
Io mi sono svegliato e a volte migrano e fuggono
gli uccelli che dormivano nella tua anima.
lunedì 17 maggio 2010
Iscinta e scalza... - Boccaccio
Iscinta e scalza, con le trezze avvolte,
e d'uno scoglio in altro trapassando,
conche marine da quelli spiccando,
giva la donna mia con le altre molte.
E l'onde, quasi in sé tutte raccolte,
con picciol moto i bianchi piè bagnando,
innanzi si spingevan mormorando
e ritraènsi iterando le volte.
E se tal volta, forse di bagnarsi
temendo, i vestimenti in su tirava,
sì ch'io vedeo più della gamba schiuso,
oh, quali avria veduto allora farsi,
chi rimirato avesse dov'io stava,
gli occhi mia vaghi di mirar più suso!
Via del Monte - da "Tre Vie" - Umberto Saba
A Trieste ove son tristezze molte,
e bellezze di cielo e di contrada,
c’è un’erta che si chiama Via del Monte.
Incomincia con una sinagoga
e termina ad un chiostro; a mezza strada
ha una cappella; indi la nera foga
della vita scoprire puoi da un prato,
e il mare con le navi e il promontorio,
e la folla e le tende del mercato.
Trieste - Umberto Saba
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un'erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
da: Miramar - Giosuè Carducci
O Miramare, a le tue bianche torri
attediate per lo ciel piovorno
fosche con volo di sinistri augelli
vengon le nubi.
Miramare, contro i tuoi graniti
grige dal torvo pelago salendo
con un rimbrotto d'anime crucciose
battono l'onde.
Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
stanno guardando le città turrite,
Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo,
gemme del mare;
e tutte il mare spinge le mugghianti
collere a questo bastion di scogli
onde t'affacci a le due viste d'Adria,
rocca d'Absburgo;
e tona il cielo a Nabresina lungo
la ferrugigna costa, e di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
leva tra' nembi.
martedì 10 novembre 2009
Dov'è lo studente che ha contestato il potere in Iran?
Come dicono molti articoli giornalistici, lo studente Mahmud Vahidnia, vincitore delle Olimpiadi della Matematica, parla all’Assemblea e critica le televisioni e le radio di Stato, il clima poliziesco che controlla ed opprime la stampa, l’impossibilità di esprimere qualsiasi critica alla Guida Suprema e la struttura del potere in Iran, nelle mani del Consiglio dei Guardiani e dell’Assemblea degli Esperti, che impediscono la democrazia
Ci sono notizie del suo arresto da parte della polizia politico—religiosa, ma internet riporta anche voci che dicono che egli sia libero, in un luogo sicuro, al riparo dalla luce dei riflettori…
Questo semplice protagonista del desiderio di libertà è solo? Perché il mondo non si mobilita per sapere quale sarà il suo destino ed impedire che sia messo a tacere?
Da "Il Messaggero"
ROMA (31 ottobre) - L'ayatollah Ali Khamenei partecipa alla Conferenza nazionale delle Giovani Elite. Uno studente, Mahmud Vahidnia, vincitore delle Olimpiadi della Matematica, prende la parola e critica «le tv e radio di stato, il clima poliziesco che circonda la stampa, l'impossibilità di esprimere critiche alla Guida Suprema e la struttura di potere nel Paese incarnata dal Consiglio dei Guardiani e l'Assemblea degli Esperti», che imbriglia la democrazia.
Quel ragazzo, secondo quanto riporta il blog homylafayette.blogspot.com di opposizione iraniana, rilanciato dal sito iranian.com, è stato arrestato. Lo studente, stando a quanto riferito dal blog, mercoledì ha preso la parola a Teheran durante un incontro ufficiale dello stesso Khamenei con le elite universitarie del Paese, e da giovedì, secondo informazioni non confermate, sarebbe nelle mani dei Guardiani della Rivoluzione.
Rivoltosi a Khamenei, che presiedeva l'incontro, Vahidnia ha chiesto più tempo per poter finire il suo discorso e la Guida suprema, sempre secondo il blogger, avrebbe detto: «Vorrei che proseguisse. Il tempo è già esaurito ma lei vada avanti».
giovedì 14 maggio 2009
ti aspetterò
fino alla fine del tempo
e arrivando alla fine
chiederò a Dio di tornare
mille vite a soffrire,
non importa quanto,
per poterti cercare;
ti cercherò,
mi dovessi smarrire,
ti saprò ritrovare
e se dovessi scoprire
di non poterti incontrare,
se dovessi vivere
e vederti passare
senza che Dio
mi volesse esaudire,
e ti dovessi vedere
per tutta una vita
senza poterti sfiorare,
senza farti accorgere
di tutto il mio amore
ti saprei aspettare,
anche se Dio
mi dovesse punire
per farci incontrare
l'ultimo giorno
e poi farmi morire,
ti saprei aspettare
e non chiederei altro
che solo un giorno
anche l'ultimo giorno
di una vita da solo,
anche solo un minuto
per poterti baciare,
per non svanire
senza dirti il mio amore
mercoledì 25 febbraio 2009
I colori della mia terra
mercoledì 21 gennaio 2009
La forza della mente - Film con Emma Tomphson
Morte,
non essere fiera.
Pur se taluni t'abbiano chiamata terribile e possente,
perchè tu non lo sei,
che quei che tu credi di travolgere
non muoiono,
povera morte
nè tu puoi uccider me.
Tu, schiava del fato, del caso, di re e di disperati;
tu, che ti nutri di guerre, veleni e malattie,
oppio e incantesimi ci sanno addormentare
ugualmente e meglio di ogni tuo fendente.
Perché dunque insuperbisci?
Trascorso un breve sonno,
veglieremo in eterno
e morte più non sarà,
morte
tu morrai
"The Divine Poems" by John Donne edited by Helen Gardner
traduzione di Beatrix Potter (of Frederich Warne & Co.)
venerdì 16 gennaio 2009
l'elleboro verde
Oggi, però, vedendo l’elleboro fiorito, il mio primo pensiero è stato: “l’inverno è finito, arriva la primavera”, pur conscio che ci saranno almeno ancora due mesi di pioggia e di neve e la bora urlerà piegando i pioppi. Perché? Poi ho capito.
Andando incontro ad un futuro, per quanto incerto, con l’anima leggera, accorciamo il tempo che, al contrario, si dilata e rende spinosa anche la malinconia delle brevi attese
giovedì 15 gennaio 2009
DESEO - Federico García Lorca
Sólo tu corazón caliente,
Mi paraíso, un campo
Sin la espuela del viento
Una enorme luz
Un reposo claro
Y tu corazón caliente,
La Rivière
Los signos del tempore - I segni del tempo
le cicatrici della mia vita
sono i segni esistenziali
intagliati nel profondo
della mia anima
come in una vecchia quercia;
un nome inciso
da una mano giovane
che con la corteccia cresce;
così m’accompagna
fino alla fine
questa ferita antica inflitta in anni e tempi;
ora, leggendo
questi segni, so che l’intagliatore
già da tempo è morto
ma l’albero rimane, è.
las cicatrices de mi vita
sont los signos existentiales
incisos in le profundo de mi anima
quomo in un vetulo querco;
un nomine inciso
ab una mano juvene
que cum la cortice crescet;
assi me accompaniat
usque a la fin,
ista ferita antiqua,
inflicta in annos et tempores;
nunc, legendo
istos signos, sae que l’incisor
jam a multo tempore hat morto,
sed l’arbor remanet, est.
martedì 13 gennaio 2009
ISTRIA: GLI ITALIANI «PRIGIONIERI»
• da Corriere della Sera del 13 gennaio 2009, pag. 1 di Gian Antonio Stella
-
Sarà un filo di seta», avevano giurato 18 anni fa costruendolo in poche ore sull'orto di piselli della signora Anna Del Bello Budak. Quel confine fra Slovenia e Croazia, invece, è diventato una piccola cortina di ferro. E a causa di una nuova guerra (fredda) fra i due Stati ex jugoslavi gli italiani di Buje, Umago o Rovigno non sono mai stati tanto separati dall'Italia. Neppure sotto i comunisti titini. Non c'era mai stato un confine lì, a segare in due orizzontalmente la penisola istriana. Non sotto i romani, non sotto Venezia, non sotto gli Asburgo, non sotto Napoleone e di nuovo sotto l'impero austroungarico. Mai. Certo, si era via via delineata una sorta di confine amministrativo, sancito come tale all'interno delle frontiere del Regno di Jugoslavia, poi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Ma mai un confine vero e proprio fino a quando nella primavera del 1991, su quel curvone dell'antica via Flavia tracciata da Vespasiano, a poche decine di metri dal ponte sul fiume Dragogna, nel nordovest dell'Istria, non apparvero le ruspe. Strappata al tavolo dove stava pranzando dall'assordante rumore delle pale, Anna Del Bello si precipitò fuori correndo stupefatta e ansante verso l'orto: «Fermi! Fermi! Cos'è questa storia?». Gli operai la guardarono indifferenti: «Ordini superiori». «Non potete farlo!» «Ordini superiori». «Mostratemi le carte! Questa è terra mia!». «Ordini superiori ». E sotto gli occhi della povera vecchia in lacrime, rovesciarono tonnellate di ghiaia sulle piantine di patate, sradicarono gli alberelli di pesche, seppellirono le «commesse» di cipolle e pomodori.
Meno di tre giorni dopo, c'era già il confine. «Ma no, non confine: è solo un punto di sosta per i camion», giurava ridendo il direttore dei lavori Matia Potocar, «solo cestna. Capito? Ristrutturazione cestna: strada». Il «Piccolo» di Trieste scrisse di una «tragica guerra dei bottoni». «Non esageriamo», sbuffava un alto funzionario della Milicja di Capodistria, «sarà soprattutto un confine dimostrativo. I cittadini circoleranno liberamente...». Falso. Pochi mesi dopo, gli abitanti della zona, per secoli in larga maggioranza italiani, si raccontavano storie pazzesche. Come quella di Duilio Visentin che, colpito da una emorragia interna, era stato portato da un paesino vicino a Portole, nell'Istria oggi croata, verso l'ospedale più vicino di Isola, che però adesso era al di là del confine, in Slovenia: «Mio marito sta morendo». «Documenti! » «Muore!» «Senza documenti non si passa!» «Vi prego...». «Documenti!».
A Villa Cucini, sulle alture nel cuore della penisola, si ritrovarono in Slovenia con la chiesa e il cimitero in Croazia, col risultato che per portare il morto nella tomba di famiglia ora ci voleva il lasciapassare e un po' di carte bollate per l'estradizione della salma. Per non dire degli abitanti di Bresovizza il giorno che si precipitarono coi secchi e i badili a spegnere l'incendio a una casa al di là della nuova frontiera: «Altolà! Documenti». Virgilio Babich, che stava proprio sul Dragogna e non se n'era andato con tutti gli altri italiani per restare col vecchio padre («Uno sbaglio di cui mi sono pentito sempre ») raccontava amaro di essere nato italiano per poi diventare jugoslavo, sloveno e infine croato «senza mai muovermi da casa mia». E quando gli piazzarono il nuovo confine sotto il naso, col casolare da una parte e un po' di terreno dall'altra, lo fecero ammattire: «La bolletta della luce mi arriva da Buie che è in Croazia, e l'acqua da Capodistria, in Slovenia, l'ufficio tavolare è a Pirano, il catasto ancora a Capodistria...».
Ci sarebbe da sorridere se la situazione, col passare degli anni, non fosse diventata sempre più pesante. Tutto a causa di un altro confine, quello marittimo. Sul quale sloveni e croati si sono via via irrigiditi. Al momento della Commissione internazionale, presieduta da Robert Badinter, costituita dopo la dissoluzione della Jugoslavia, pareva che tutto fosse chiaro: «Le nuove frontiere rimangono quelle delle Repubbliche socialiste». Ma quelle nel mare del golfo di Trieste, prima inesistenti? A sentire i croati, che non a caso arrivarono nei primi anni Novanta ad arrestare Sergio Parentin, un vecchio pescatore di Pirano che aveva trascorso tutta la vita lavorando nel golfo stretto tra la sua cittadina e la dirimpettaia Salvore accusandolo di avere gettato le reti in acque a lui vietate, il confine «naturale» c'è: è il proseguimento immaginario del Dragogna tracciato esattamente a metà del golfo. Eh no, rispondono gli sloveni: piazzato lì, quel confine marittimo, a causa della vicinanza delle acque territoriali italiane, impedirebbe a Lubiana di avere un accesso diretto alle acque internazionali. Quindi? Vogliono tutto il golfo di Pirano. Cosa che i croati si rifiutano di accettare.
Risultato: ne è nato un braccio di ferro. Sempre più duro. Al punto che la Slovenia, entrata un anno fa nell' area del trattato di Schengen, si è messa di traverso all'ingresso della Croazia nella Ue, ponendo il veto, finché i croati non cederanno: hanno già tanto mare! Perché impuntarsi su pochi chilometri? Affari loro, direte: si arrangino. Il guaio è che questa «guerra fredda » intorno a quel golfo per secoli venezianissimo, come denuncia il leader dell'Unione Italiana Maurizio Tremul che ne ha parlato ieri anche a Franco Frattini in visita a Zagabria e a Pola, va a pesare sulla vita stessa della nostra minoranza nell'Istria croata. In particolare su quelli dell'ex «zona B». Con l'entrata della Slovenia nell'area Schengen, Lubiana e Roma concordarono infatti la decadenza dell'Accordo di Udine del '55 che prevedeva per gli italiani d'Istria di «lasciapassare » e valichi secondari e tutta una serie di facilitazioni che rendevano più sottile il confine con la patria perduta. Decadenza decisa, in parallelo, anche dalla Croazia.
Risultato: il confine tra la Slovenia e l'Italia, che per decenni segnò la frontiera tra l'occidente democratico, la Jugoslavia e i Paesi dell'Est, è stato smantellato e non c'è più. Ma quello sul Dragogna, come denuncia «Il Piccolo» sul quale si è riacceso il dibattito sulla riconciliazione, è diventato il nuovo confine meridionale europeo. Più duro. Più rigido. Più difficile da superare per gli italiani, paradossalmente, di quello comunista che per decenni faceva loro sanguinare il cuore a ridosso di Trieste.
La rosa innamorata - Mark McLaud; Traduction a Romanica per Carlos Alberto Da Silva Santos
i suoi sensi acutissimi percepivano buio, freddo, isolamento.
Iniziò a destarsi, lentamente, intirizzita cercò di stirarsi, tendersi,
ma era coperta strettamente e no riusciva a muoversi.
Per un attimo il panico la colse, in quel semivigile dormiveglia,
poi un flusso benefico, come un fluido generoso la rinvigorì.
Rafforzata ripetè lo sforzo, ma invano. Avvolta da tenaci coperte,
che per quanto confortevoli, non le permettevano alcun movimento,
si svegliò, immediatamente rassegnata e vinta.
Un attimo di tristezza velò sua percezione priva di occhi.
che le avrebbero mostrato il mondo attorno,
mentre un cinguettìo di uccelli accompagnava un tenue chiarore.
Le sembrò che la morsa della notte si fosse attenuata, insieme all'aumento della luce.
Comprese che proprio la luce, che cresceva d'intensità, veniva accompagnata
da un maggior flusso dell'energia benefica che saliva e la pervadeva tuttta.
Poi la luce divenne calore e non seppe spiegarselo, ma vi si adagiò,
sentendo che, allo stesso tempo le avvolgenti coperte allentavano lo stretto abbraccio.
Attese.
Un sonno improvviso l'aveva colta e, svegliandosi del tutto, adesso, ricordò:
Ancora pervasa da quella sensazione ascoltò con tutti i suoi sensi accesi:
la luce adesso era vivida, anche se la percepiva attraverso una velatura verde tenue
e il bisogno di stendersi era potente.
Subito quell'energia fluente, come linfa vitale la rafforzò
e sentì davvero di avere le ali del sogno.
Raccolse le forze e estese ogni sua parte e finalmente capì
Il bocciolo si aprì di scatto e i petali rossi si dispiegarono, aprendosi alla luce,
si stendevano sempre più grandi e via via che si aprivano alla calda carezza del sole.
La rosa si aprì, si lasciò baciare dal sole, s'inebriò alla brezza tiepida
che le aveva fatto immediatamente dimenticare il malessere gelido della lunga notte
prima della sua nascita.
Gli uccelli saettavano nel cielo e ne percepì, vibranti, le ali frementi;
gioì per il candore delle piccole nubi bianche e veloci, fu lusingata
della prima visita di una farfalla che la baciò e la fece arrossire, di un carminio acceso.
Si sentì adulta, immediatamente e si chiese il perché della sua nascita.
Quel meraviglioso mondo sembrava non avere confini, certo,
ma un motivo ci doveva essere, un motivo più alto, "lo sentiva".
Godette il sole che si alzava ed ora splendeva dritto su di lei.
Aprì i petali e, discinta, scoprì il suo cuore dorato al centro della corolla.
Un'ombra improvvisa apparve oscurando il sole. Un sorriso. Un viso.
Ma nessun timore. Percepì la gioia nella creatura immensa che la sovrastava,
sentì la carezza sotto di sé quando egli le pose il palmo sotto il calice.
Perse quasi i sensi dal piacere quando egli l'annusò; se ne innamorò,
quando le labbra di lui le rubarono il sapore dei petali. Sei bellissima,
le disse il pensiero, la più bella rosa del mio giardino.
Lei visse a lungo, fin quando il sonno la colse prima di vedere
i meravigliosi petali avvizzire, e, addormentandosi ringraziò il suo meraviglioso
amante nel momento in cui la recise, percependo il suo pensiero:
ti conserverò tra le pagine del mio libro preferito.
Ma la sua anima viveva, perché si svegliò: precipitava lungo un tunnel,
verso il basso, veloce come il pensiero, immersa nella linfa vitale, calda, nutriente.
Mentre sopra di sé sentiva l'inverno gelare le zolle si addormentò,
felice e consapevole che, dopo un lungo sonno, si sarebbe nuovamente svegliata,
sbocciando, rosa innamorata.
I segreti degli Alpini
- Ma, gli asini capiscono?
- E’ un mulo, non un asino; certo che capiscono.
- Ma và!
- Certo che capiscono; prima che finisca la guerra vedrai che anche tu parlerai con i muli.
- Ma che cosa ha detto al mulo, tu lo sai?
- No, sono segreti, segreti degli alpini, nessuno li può sapere e adesso taci, matricola!
- Mah, di sicuro gli ha detto che finisce la guerra.
- Sì, forse; solo il mulo sa quando finirà.
Il sole scivolava lento dietro una croda, disegnando lame di luce rossastra nel cielo che andava incupendo; Pilòn tolse dal taschino l’orologio antico, la vecchia “cipolla” del nonno, al quale il nonno l’aveva donata. Uno sguardo all’ora, poi mosse a grandi passi rumorosi verso il sergente, sapendo che l’amico non gliela avrebbe negata, quella pazzia.
- Magiòr, ho da andàr, domani, prima che nassa el sole sarò qua; prima della sveja.
- Pilòn, mi so che son mat però so che ti si mat più de mi, ma torna in tempo. I austriachi là sot i xè in fermento, domani i se svejarà presto, anca le piere se svejarà, no farme far la guera a mi solo.
Così, mentre il sole già iniziava a giocare con le cime ad occidente, striando di raggi vermigli il mantello azzurro del cielo, Pilòn partì come uno stambecco franando lungo i ripidi ghiaioni, con le gambe lunghe che emergevano dall’ondata di pietrisco e riaffondavano; quelle braccia aperte per equilibrare la corsa pazza verso valle, sembravano le immense ali di un’aquila planante.
Gli alpini, dalla cengia, guardavano stupiti il compagno che scivolava sicuro tra le rocce, cavalcando un’onda di ghiaia, in una nuvola di pietrisco e polvere bianca, ed anche quando, ormai nascosto dai mughi bassi e resinosi, fu invisibile all’ombra della croda, si poteva udire il rumore della sua corsa, quasi un sordo franare di una valanga lontana.
- Dove valo, Pilòn, così de corsa?
- Tasi, matricola, l’è un segreto.
- Un segreto?
- Un segreto dei Alpini, dormi adess, che ‘l prossimo turno de guardia riva presto.
Pilòn scese veloce, mentre nella sera le ombre si allungavano; la luna piena iniziava a rischiarare le candide sassaie del Pelmo e dipingeva di azzurro i piastroni dell’Antelao. Corse fino alle scivolose erbe dei prati, senza fermarsi, giù, verso il Boite che scorreva, cantando con le sue acque color latte e menta, sotto le scure e severe chiome degli abeti neri. Ecco, era apparso il campanile di pietra del villaggio e i rintocchi del vespero, ripetuti dalle eco si spandevano nelle valli immerse in una quiete quasi incredula, come se la guerra delle vette là, lungo i boschi odorosi di muschio e funghi, fosse solo una fiaba d’altri tempi, d’altri luoghi.
Presso la minuscola pieve di pietra la giovane, chinata sulla vasca del fontanile, raccoglieva con le mani l’acqua limpida e la spandeva ora sui polsi, ora sulle braccia, per salire poi fino alle ascelle ed alle spalle, infine ai seni che turgidi rispondevano alla frizzante carezza. Pilòn fermò la sua corsa e rimase sul bordo del prato per riprendere fiato, in silenzio, e per ammirare la sua amata, in quella scena riservata e solitaria di struggente ed intima dolcezza. Lei indossava soltanto la gonna ed il grembiule, sciolto dalle spalline merlettate, vi ricadeva sulle volute ampie. I piedi scalzi e rosei sembravano ancor più minuti sull’erba ancor tiepida del prato. Le strie candide di sapone, l’antico sapone da biancheria dal generoso aroma di pulito, scivolavano, deterse dall’acqua fredda, portata sulla pelle dalle mani chiuse a coppa.
Sulle guance abbronzate ricadevano ciocche di capelli bagnati che il chiaro di luna ornava di riflessi bluastri: il cuore impazzì nel petto di Pilòn, colmo d’amore e di desiderio. Ignara d’essere ammirata dal suo compagno, lei continuò a detergere la stanchezza della giornata dal petto e dal collo, da cui l’acqua scivolava; leggermente china sul lavatoio mostrava il corpo giovane e perfetto, i lunghi capelli ornavano un viso dai tratti delicati, le guance arrossate dal sole e dalla reazione all’acqua gelida donavano alla donna pennellate di pulita fanciullezza. Pilòn le si avvicinò, cauto, alle spalle e mentre con le braccia alzate lei si sistemava i capelli, l’abbracciò forte, stringendola a sé e le grandi mani forti e al tempo delicate le imprigionarono i seni. Lei ebbe un sussulto, ma l’inconfondibile contatto delle mani conosciute la tranquillizzò e, ruotando lentamente, sulle punte dei piedi scalzi, come in un ballo di carillon, avvinta nelle braccia amate, volse il corpo e lo sguardo verso il suo compagno per offrirgli gli occhi immensi e neri, la bocca rossa, le labbra morbide, tutta sé stessa.
- Sei tornato, Pilòn? Non devi partire? Dov’è il Reparto?
- E’ un segreto, Piccolina, un segreto degli Alpini – rise lui – ma mi chiamerai ancora per cognome?
- Un segreto, Pilòn? – rise anche lei.
- No, per te nessun segreto. Solo per questa notte, Fiore. Gli austriaci saliranno da Carbonin, sarà domani, chissà
- Domani?
- Profumi di fiori, d’erba, di sapone – aggiunse piano Pilòn alla sua donna, per uscire da quel discorso, da quella sensazione opprimente che gli serrava il cuore.
- Tu sai di mulo e di sudore, Pilòn! – scherzò lei, ridendo.
Così iniziò a spogliarlo, baciandoli il petto, affondando il viso sulla sua pelle, perché non voleva lui capisse che piangeva. La passione cancellò le paure, la guerra, l’universo attorno e finirono, nudi, nella gelida acqua del lavatoio, per lavarsi e accarezzarsi e baciarsi e scambiarsi la pelle, l’anima, il cuore. Lei uscì dalla vasca gelida, i seni turgidi, il corpo scosso da brividi di freddo e da tremiti di desiderio, con i capelli bagnati che le creavano rivoli e cascatelle sulle morbide curve: egli la strinse a sé e il freddo scomparve, mentre le gocce rigavano i corpi vinti dalla passione; raccolto un lenzuolo dalla cesta del bucato, l’asciugò e con un altro, ampio come un mantello, si avvolsero e stretti in un abbraccio quasi doloroso caddero e si amarono a lungo, con frenesia, i cuori in tempesta, come se fosse l’ultima volta, pur essendo la prima volta.
Pilòn rimase a lungo, quella notte, con il viso di lei posato sul suo petto, ad accarezzarle la schiena e le spalle. Rimase a lungo a guardare il cielo nero riflesso nei suoi neri occhi, a guardarvi brillare le stelle.
- Dimmi che mi amerai per sempre, Mio Pilòn
- Per sempre, Mia, - rispose veloce Pilòn, perché adesso era lui a non volerle far capire che piangeva.
Il sole rischiarava le cime: lei lo seguì con lo sguardo finché non lo vide scomparire dietro le rocce delle alte crete di Marcòra, poi raccolse la cesta ed il bucato e incamminandosi verso i casolari lontani pregò...
I cannoni da Carbonin assestavano il tiro, sembravano ancor più vicini e tra le rocce ormai l’odore del sangue era più intenso di quello della paura. Il giovane alpino aveva la gamba staccata appena sotto il ginocchio e il ventre lacerato; Pilòn lo raccolse nelle sue ampie braccia per portarlo al riparo. Mamma! chiamò con un fil di voce il ragazzo. Pilòn, accese un sigaro e glielo mise tra le labbra. “Stai qui, qui sei fuori tiro, - rispose, - chiudendogli gli occhi ormai spenti. Poi imbracciò il fucile, riempì le giberne di munizioni e salì sulla cresta. Caricò, mirò, centrò il soldato nemico in pieno petto. Questi ricadde sul sentiero con gli occhi spalancati al cielo ed ancora una volta a Pilòn si spezzò il cuore dal dolore e si sentì improvvisamente vecchio e stanco. Gli assaltatori erano ormai vicini, ma Pilòn, scostando il sergente, ormai esanime dalla postazione della mitragliatrice, difese la cengia, sparando e stroncando quella valanga grigioverde che saliva, finché nessuno più si mosse, sulle rocce rosse di sangue. Si guardò attorno, nessuno più si muoveva, solo alcuni alpini raccolti intorno alla radio da campo che gracchiava, gli fecero cenno con la mano. “E’ finita, vieni giù, è finita! Alla radio il Comando ha detto che la guerra è finita, vieni giù!”
Pilòn incredulo si erse, stagliandosi imponente contro il cielo improvvisamente più limpido, più chiaro. “Adesso torno, Amore mio, aspettami alla fontana” - pensò tra sé. Il cecchino austriaco mirò e premette il grilletto su quella sagoma così distinta e semplice da centrare. Sparò proprio mentre l’oberleutnant stava gridandogli di smettere, di smettere perché era tutto finito. Pilòn sentì un fuoco immenso proprio vicino al cuore e per un istante credette fosse amore, vide in un istante quegli occhi neri, vide la sua donna che aveva amato e sorrise, poiché era stata l’ultima ed anche la prima volta, poi capì che quella fiamma ardente era una ferita e che da quel foro la vita gli stava fuggendo e tentò ti tenerla stretta a sé portando le mani grandi e forti al petto, gridando con l’anima: “adesso no, adesso no!”. Dalla sua bocca non uscì la voce, ma un fiotto di sangue. Cadde lungo il ghiaione, cadde riverso sulla cengia sottostante, davanti all’alpenjaeger che aveva colpito poco prima e si stupì; era giovane, era così giovane, un ragazzino; lo riconobbe e ricordò di aver giocato assieme a lui, pochi anni addietro, e nuotato nel lago di Carbonin, prima che la guerra avesse deciso che le due valli, così vicine, divise da due curve di carrareccia e un boschetto, dovevano essere nemiche. Il ragazzo, con gli occhi quasi spenti e un rivolo di sangue che gli rigava il mento emise un gemito: “ wasser, wasser, bitte, wasser mein freund..”
Pilòn allungò la mano sulla sua borraccia di latta ammaccata, con le ultime forze svitò il tappo, l’allungò verso il ragazzo e si spense. Il sole ormai alto nel cielo non gettava ombre. Sulla cengia pietrosa due giovani erano distesi a terra, sembravano giocare, ma erano immobili, le braccia protese, le mani sulla stessa borraccia, come se volessero offrirsi l’un l’altro l’ultima goccia d’acqua.
Il paese era in fermento, le voci si rincorrevano nelle strette strade odorose di stallatico, molti corsero in chiesa a ringraziare il Signore, altri alzarono gli occhi verso le crode da cui, chi solo, altri a gruppi, gli Alpini stanchi, stremati, scendevano e correvano loro incontro. La ragazza lasciò cadere la cesta del bucato da risciacquare e andò alla fontana appresso al Boite; era là, come d’accordo, che l’avrebbe aspettato. Aspettò, aspettò fino a notte, aspettò per settimane, mesi, anni.
Le macchine rombavano lungo le strade che avevano da anni coperto d’asfalto le polverose mulattiere. Un gruppo di turisti si fermò alla fontana per bere l’acqua fresca e salutarono l’anziana donna che, seduta sul bordo del lavatoio sembrava attendere. L’età non aveva scalfito l’antica bellezza e profumava d’erba e di sapone da bucato. Lei ricambiò il saluto con un lento cenno del capo: sembrava sorridere. I turisti ripresero il sentiero, per scendere verso il ponte di legno, attraversare il torrente e salire al Rifugio Venezia, sotto il Pelmo, mentre la guida raccontava di uomini e di donne di quelle valli, di guerre ormai dimenticate, d’eroi, imprese e leggende. In quelle valli si sente spesso parlare della donna che aveva aspettato ogni sera alla fontana il suo compagno: l’aveva atteso per anni ed anni, poi, una sera, misteriosamente, era scomparsa e di lei non era rimasta traccia, solamente la cesta del bucato e qualche lenzuolo sull’erba. Ma alcuni giurano che un giovane alto, robusto, era sceso dalle crode, lungo le ghiaie tra Marcòra e l’Antelao, in una notte di luna, una di quelle notti in cui le cime splendono alla sua intensa luce azzurra. Era comparso all’improvviso presso la fontana, aveva stretto a sé la vecchia donna in attesa e, aprendo un lenzuolo fresco ed asciutto, l’aveva fatto roteare per aprirlo e farlo scendere come un’ala candida e leggera su quell’abbraccio. Dicono poi che, quando il lenzuolo si fu posato sul prato, i due innamorati erano già svaniti nella tiepida brezza estiva. Dove siano finiti non ve lo dirà nessuno; anche coloro che credono di saperlo e quelli che lo sanno davvero non vi diranno nulla di più, perché è un segreto, un segreto degli Alpini.